La diabolica arte di minimizzare ovvero verso una deregolamentazione selvaggia degli orari di lavoro. Negli ultimi mesi si moltiplicano gli attacchi all’attuale regolamentazione degli orari di lavoro.
 Non è un caso che, mentre a livello nazionale si discute sull’attuazione delle iniziative parlamentari Graber e Keller-Sutter per la modifica della legge sul lavoro, la Società svizzera impresari costruttori punti proprio su questo argomento per ostacolare il raggiungimento di un accordo nel quadro del rinnovo del contratto nazionale mantello dell’edilizia.
L’economia sostiene che siano gli stessi lavoratori a chiedere una maggiore flessibilità degli orari di lavoro per migliorare la possibilità di conciliare le esigenze della vita privata con quelle professionali. Tuttavia ciò che non dicono è che la legislazione attualmente in vigore già consente che le lavoratrici e i lavoratori, compatibilmente con la loro professione, possano di loro iniziativa esercitare una certa flessibilità. Prova ne sia che, con la diffusione sempre più capillare delle nuove tecnologie, imprese e sindacati hanno persino sentito l’esigenza di introdurre nei contratti collettivi e nei regolamenti aziendali il «diritto a non rispondere» per chi, al di fuori dell’orario di lavoro, riceve comunicazioni sullo smartphone o sul computer portatile.
Ciò che ora non è consentito è che il datore di lavoro imponga ai lavoratori di essere presenti o a disposizione al di fuori degli orari stabiliti per legge. Questa limitazione, lungi dall’essere fuori moda come qualcuno vorrebbe suggerire, è una misura di protezione della salute dei dipendenti. L’alternanza tra lavoro e riposo è stata predisposta per consentire di recuperare le forze, essere presenti e attivi, attenti al rischio di infortuni.
Dato che questa è la premessa, ferisce ascoltare le continue dichiarazioni che tendono a minimizzare l’impatto di queste modifiche legislative e contrattuali. In gioco c’è la vita e la salute delle lavoratrici e dei lavoratori, oltre che l’equilibrio delle relazioni familiari e sociali.
L’iniziativa Graber propone per esempio di annualizzare l’orario di lavoro per coloro che portano una certa responsabilità in azienda. Questa definizione è talmente vaga che neppure in Parlamento c’è chiarezza sul numero di persone coinvolte (tra il 15 e il 40% dei lavoratori). Per queste persone non esisterebbe più una durata massima settimanale del lavoro, sarebbe consentito il lavoro domenicale, la giornata potrebbe durare fino alle 13 ore e mezza e sarebbe possibile per più volte alla settimana ridurre il tempo di riposo a 9 ore.
Ora immaginatevi di uscire dall’ufficio, tornare a casa, togliervi le scarpe, mangiare un boccone, scambiare due parole con i familiari, sempre che siano ancora svegli, dormire, rialzarvi e prepararvi per tornare al lavoro. Tutto in nove ore. Quale spazio c’è per recuperare le forze? E per le relazioni sociali, la propria famiglia, i propri interessi? È vero, in altri momenti dell’anno o del mese il tempo potrebbe essere recuperato, ma i ritmi della vita privata e sociale sarebbero totalmente condizionati dalle oscillazioni di quelli imposti dai datori di lavoro. Inoltre, è davvero possibile mantenere la concentrazione dopo un numero di ore di lavoro così elevato? Forse sì, certamente a danno della propria salute.
Con un’operazione analoga si è esposta la Società svizzera impresari costruttori che propone l’annualizzazione degli orari di lavoro e quasi un raddoppio delle ore flessibili (da -100 a +200).
Giochiamo anche noi a minimizzare: cosa volete che sia? Chiedetelo ad un lavoratore edile che ha già la schiena rotta alla fine di una normale giornata di lavoro. Chiedetegli perché ha manifestato lunedì scorso 15 ottobre contro queste proposte!
 
Renato Ricciardi