La direzione Volkswagen ha annunciato l’intenzione di chiudere uno o più stabilimenti in Germania. È una notizia che ha fatto molto scalpore per diversi motivi.

Innanzitutto, dalla sua nascita non era mai accaduto. Nel corso della sua storia, iniziata in modo poco onorevole ai tempi del nazismo, la crescita era stata pressoché costante e aveva portato all’acquisizione di numerosi importanti marchi tra cui: Audi, Lamborghini, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Porsche e Ducati.
Il secondo elemento è rappresentato dalle conseguenze che una tale chiusura porterebbe dal punto di vista occupazionale in modo diretto, si parla di decine di migliaia di dipendenti del gruppo che perderebbero il posto di lavoro, ma anche indiretto, perché la chiusura di stabilimenti di notevoli dimensioni non potrebbe che portare contraccolpi a tutte le piccole, medie e grandi imprese coinvolte nella catena di fornitura dei componenti in Germania e all’estero.
È quanto sta purtroppo già accadendo in Italia e in Francia per i tagli e i trasferimenti di Stellantis, che raggruppa Fiat, Chrysler, Maserati, Citroën, Alfa Romeo e Opel. È quanto accaduto anche in Ticino, con l’annunciata chiusura di Mubea a Bedano. 
C’è chi ha insinuato che il modello di gestione dell’azienda, nella quale è centrale il ruolo della rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori, abbia influito negativamente sull’attuale situazione rendendo l’azienda rigida e incapace di gestire il cambiamento. In Germania molte aziende sono organizzate secondo il principio della «Mitbestimmung», introdotta nel 1951 e generalizzata nel 1976 a tutte le imprese con più di 2’000 lavoratori. In sostanza le aziende sono governate da un Supervisory board, composto da uno stesso numero di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, il quale nomina il Consiglio di amministrazione. 
Che non sia questo aspetto ad aver influito in modo negativo sull’andamento dell’azienda è abbastanza evidente per due ragioni: da una parte quella di Volkswagen è in generale una storia di successo; dall’altra tutte le aziende europee del settore, per esempio appunto Stellantis, stanno soffrendo.
Le ragioni sono numerose: in primo luogo dal 2020 sono in diminuzione le immatricolazioni di nuove automobili in Europa, Stati Uniti e Giappone, mentre crescono in Cina e India. In secondo luogo, le case automobilistiche europee hanno un ritardo tecnologico sulla produzione di auto elettriche e spesso dipendono da componenti essenziali prodotti in Asia. D’altra parte molti produttori cinesi hanno messo sul mercato auto efficienti a basso costo che vengono vendute in Europa e preferite sui mercati asiatici della Cina e dell’India nei quali l’uso dell’auto, ed in particolare dell’auto elettrica, è in forte crescita. Del resto tra i primi cinque produttori di auto elettriche nel 2024, dopo Tesla figurano tre produttori di auto cinesi, e solo al quinto posto appare la prima europea, appunto Volkswagen, con una produzione pari a un quarto della seconda classificata Byd.

B.R.