La crisi dell’alta moda miete le sue vittime anche in Ticino. Dopo anni in cui il mercato del lusso con la sua redditività sembrava in continua evoluzione e durante i quali probabilmente qualcuno si è illuso che gli utili da urlo fossero unicamente il risultato delle proprie capacità imprenditoriali e non anche di una fortunata contingenza storica, ecco il rovinoso tonfo.

La pandemia ha dato un primo schiaffo, la complicata situazione geopolitica mondiale ha poi impedito agli schiaffeggiati di riprendersi. E, al momento, anche per il futuro non sembrano esserci segni di ripresa. Il lusso non sembra più una priorità di chi se lo può permettere. In tempo di crisi, insomma, si sta più attenti a dove e come investire i propri averi. Inevitabile, per una realtà che produce scarpe «made in Switzerland» dal valore di centinaia, se non migliaia di franchi al paio, accusare il colpo. Lo avete capito, stiamo parlando della Bally Schuhfabriken AG di Caslano, una delle realtà produttive di calzature più antiche della Svizzera.

Ridurre i costi, senza «se» e senza «ma»
D’inizio mese, lo si sa, l’annuncio da parte dell’azienda di voler procedere con un licenziamento collettivo: nella necessità di ridurre i costi, Bally annuncia il licenziamento di sessantacinque persone (tra fabbrica e uffici) entro fine novembre. Se per qualche anno il vecchio fondo che ne era proprietario si è limitato a coprire i deficit multimilionari nella speranza di una rinascita, ecco che, con il cambio del fondo azionista avvenuto ad agosto di quest’anno, è cambiata anche la politica aziendale. Regent LP, noto fondo statunitense, ha da subito palesato la sua intenzione di invertire rotta: non più coprire i buchi, ma eliminarli.
Ecco la prima decisione: diminuire le spese pari al costo di, appunto, sessantacinque posti di lavoro. Non si vuole qui polemizzare sul fatto che, di tanto in tanto, le aziende abbiano un certo bisogno di reinventarsi per stare al passo con i tempi: è anche una dinamica per certi versi comprensibile. Si vuole invece rimarcare come troppo spesso, e sempre di più, chi decide di ristrutturare lo faccia lasciando in strada senza risorse e con scarso preavviso le persone coinvolte, contribuendo così in maniera decisiva all’aumento del disagio sociale. 
Sempre più aziende non considerano i propri lavoratori persone, ma semplici risorse. Un valore diverso poteva essere dato ai dipendenti di Bally se, invece di perdere denaro per anni nella speranza di una rinascita, l’azienda avesse deciso di investire nella buonuscita e nella possibilità di reinserimento dei lavoratori i milioni gettati a fondo perso in una realtà ormai non più redditizia. 
Cosa ha invece deciso di fare il vecchio fondo? Ha deciso di attendere un’improbabile ripresa, e poi, quando l’insostenibilità della realtà produttiva era ormai evidenza, vendere la fabbrica (probabilmente a costo zero e con debiti annessi) a un fondo che con il nostro territorio non ha nulla a che fare e a cui probabilmente poco importava di lasciare attorno a Bally una valle di lacrime.

Non ci sono fondi? Si trovino soluzioni
Regent LP, è chiaro, ha acquisito Bally per una sola ragione: vede nello stabilimento di Caslano la possibilità di utili futuri. Come verranno raggiunti questi utili? Poco importa, si vedrà. Per ora, si comincino a ridurre le spese, e che lo si faccia a costo zero. Tanto che, per il piano sociale, il fondo non ha predisposto alcun tipo di budget. Negli USA, è giusto ricordarlo, i tempi di preavviso in caso di disdetta sono assai ridotti: spesso, una volta ricevuto il licenziamento, entro una settimana si deve preparare il fagotto e abbandonare il posto di lavoro. 
Abituato a questi standard, il fondo ha ritenuto che il pagamento della regolare disdetta fosse una buonuscita più che sufficiente. Ma è chiaro a tutti che non lo è. E non lo è nemmeno se al periodo di disdetta vengono aggiunte due misere mensilità -la prima breve apertura del fondo a concedere qualcosa in più. E ancor più non lo è se a essere lasciate a casa sono sessantacinque persone che lavorano tutte nel medesimo settore.
Ecco che allora, sin da subito, gli sforzi dell’OCST e della commissione del personale coinvolti nel processo di consultazione, si sono tutti profusi nel tentativo di limitare il numero di licenziamenti, così da contenere l’emorragia di disoccupati e liberare qualche fondo per chi, inevitabilmente, doveva concludere il suo rapporto lavorativo con Bally.
E un accordo si era persino raggiunto. Se poco margine c’era per chi lavorava negli uffici dove i 32 licenziamenti sono stati confermati, alternative esistevano per la fabbrica. Non 32 licenziamenti, ma solamente 13: a patto che cinquantacinque persone riducessero al 60% la propria percentuale di impiego (con la possibilità di recuperare l’80% del restante 40% dalla cassa disoccupazione). Insomma: che 55 persone, per un massimo di due anni (un tempo ragionevole per trovare alternative lavorative), lavorassero a percentuale ridotta percependo comunque il 92% del proprio salario.

Se tra i lavoratori manca la fiducia
Ci sembrava una buona soluzione per più ragioni: avrebbe permesso a tutti i lavoratori di mantenere un livello di reddito simile a quello attuale per un periodo di due anni (la maggior parte dei dipendenti toccati, essendo molti di loro lavoratori frontalieri, avrebbe avuto altrimenti diritto a una disoccupazione esigua sia per ammontare che per durata), agevolando così anche un processo di riqualifica per alcuni di loro probabilmente necessario, che richiede tempo. Inoltre si sarebbe potuta assecondare l’intenzione dell’azienda di voler superare la crisi nel prossimo futuro: intenzione che vede la necessità di mantenere manodopera oggi (la fabbrica deve funzionare a pieno regime in particolare in determinati momenti dell’anno) e ancor più di averne a disposizione qualora ci fossero segni di ripresa nei prossimi mesi. Non si sarebbe trattato in questo ultimo caso di assumere nuove persone, ma di aumentare nuovamente la percentuale ai lavoratori già impiegati.
La proposta, sottoposta alla fabbrica, è stata respinta a strettissima maggioranza dagli operai: hanno valutato che fosse meglio subire 32 licenziamenti subito piuttosto che una lunga incerta agonia. L’OCST e la commissione del personale hanno preso atto della decisione dei lavoratori per un principio che mai ci permetteremo di scavalcare: che sia fatta la loro volontà. D’altronde è giusto che siano i lavoratori a decidere, essendo il loro lavoro e il loro salario ad essere toccati.
Il piano sociale promosso dai dipendenti Bally e dall’OCST è quindi di concedere a tutti gli uscenti tre mensilità di disdetta e tre mensilità di buonuscita, senza quantificare il numero di licenziamenti (se non una soglia massima di sessantacinque). Ci si è concentrati, insomma, nello stabilire le condizioni di licenziamento, qualora nel processo di abbattimento dei costi la modalità di riduzione del personale venisse contemplata. Non si sono posti altri vincoli all’azienda, la quale si riserverà evidentemente la libertà di valutare altre strade, oltre a quella della disdetta, per ridurre le uscite a bilancio e limitare così il numero di licenziamenti.
Non nego, e con me non lo fanno gli altri colleghi coinvolti nelle trattative, che la decisione degli operai di non approvare il piano sociale come da noi proposto ci abbia lasciati stupiti. È tuttavia una decisione sintomatica del clima in azienda: sono stati talmente tanti i sacrifici fatti dai lavoratori negli ultimi anni per rimanere a galla, senza mai tornare a galleggiare veramente e senza vedere questi sforzi riconosciuti da chi li chiedeva. che la fiducia nella dirigenza è ormai completamente venuta a mancare. Un pensiero sembra dominare in azienda: meglio morire adesso che attendere i prossimi interminabili mesi per sapere di quale morte morire.

Luca Robertini