Chissà se la sera precedente abbia avuto modo di accarezzare i figli, di abbracciarli, di regalare loro un ultimo momento di tenerezza. Chissà le ultime parole che si è scambiato con la moglie svegliandosi la mattina. 
Comunque sia andata quella sera e quella mattina di certo il suo cuore non desiderava di separarsi da loro, di allontanarsi dalla sua famiglia per sempre… eppure… è accaduto. È successo che nel suo ambiente di lavoro, quello che condivideva ormai da parecchi anni con colleghi e qualche amico, quello che conosceva così bene, con quei macchinari, quegli spazi e quelle sale, è successo che un componente maledetto lo ha colpito portandosi via sogni e speranze di una vita. 
Ora tutti a chiedersi perché, il perché morale e profondo di un fatto del genere, ma anche il perché civico ed operativo di un evento che non può non essere considerato spietato. Perché morire a 44 anni facendo il proprio lavoro nell’era in cui il digitale -si dice- stia migliorando tutto, compreso i processi produttivi, nell’era in cui le multinazionali sviluppano costosi progetti di responsabilità sociale attingendo ai loro margini operativi, nel tempo in cui si lotta e si manifesta per la parità di genere e per imprese che siano ecologicamente più sostenibili, nell’epoca di tutto ciò si muore ancora perché il pezzo di un macchinario mi può urtare violentemente l’addome. 
Non è accettabile! A prescindere dal perché e dal come, non è accettabile che un ragazzo, dei ragazzi, delle persone, possano uscire la mattina di casa e non tornarvi mai più… Non è accettabile che si possa morire svolgendo il proprio lavoro, mettendo il proprio impegno, le attitudini, i talenti e le competenze al servizio del mestiere che ci si è scelto o che ci è capitato. Non possiamo accettare che quel pezzo determinante di vita, possa valere come una guerra, possa essere letale come un virus ed invece di realizzare sogni e progetti serva a portare via la vita di mariti, padri, figli, fratelli ed amici. 
Di tutto questo, purtroppo non l’unico caso di cronaca recente, rimangono tante domande quelle più intime sul senso misterioso della vicenda, ma anche una precisa domanda che nel 2020 dovrebbe risultare superflua o superata, ma che è invece terribilmente attuale: quale sicurezza garantiamo ai nostri lavoratori?
È assurdo che di fronte ad un fatto così drammatico la possibile soluzione starebbe tutta in un’unica parola per altro carica di programmi, soluzioni e strumenti: sicurezza. Del resto la più grande negligenza del mondo moderno è quella di aver scordato, a scapito probabilmente di altri impegni ed obiettivi più politicamente corretti o visibili mediaticamente (comunque legittimi), che la prima vera grande responsabilità nel lavoro è il benessere e la soddisfazione dei propri lavoratori.
Noi richiamiamo a questo primo vero principio del lavoro: la sicurezza deve diventare un bene inalienabile!
 
Paolo Coppi