Lo scorso 1. luglio è stato pubblicato il quindicesimo rapporto della Segreteria di Stato dell’economia (Seco) sull’accordo di libera circolazione. In particolare questa pubblicazione analizza le ripercussioni della libera circolazione sul mercato del lavoro e sulle assicurazioni sociali.
Lo studio è molto dettagliato e offre interessanti spunti, tuttavia l’analisi non approfondisce alcune dinamiche che emergono chiaramente dalle cifre. Per questa ragione chi scrive è portato a raggiungere conclusioni molto diverse da quelle tratte dalla Seco sulla salute del nostro mercato del lavoro. I dati presentati continuano a mostrare l’esistenza di un’anomalia ticinese e, in misura minore, romanda, che viene sottostimata. Alla domanda «che effetto ha avuto la libera circolazione delle persone sul mercato del lavoro svizzero?» la Seco risponde «sostanzialmente positivo».
Quali sono dunque i dati ticinesi che destano preoccupazione nell’OCST? I frontalieri in Ticino sono il 27% degli occupati, un dato enormemente più alto rispetto alla media svizzera del 6.1%. Dalle ultime rilevazioni emerge che una quota così alta degli occupati ticinesi soffre di una disparità salariale spiegata, depurata cioè delle differenze di formazione, anzianità di servizio, settore e posizione professionale, dell’8%, contro solo il 4,5% nazionale.
Questi dati nel rapporto non vengono messi in relazione, ma è inevitabile farlo: il nostro cantone soffre di un ritardo salariale con il resto della Svizzera del 14.1% ed è evidente che la pressione sui salari dovuta al fatto che più di un quarto dei lavoratori attivi in Ticino guadagna l’8% in meno degli altri è rilevante. Prova ne è che tra il 2002 e il 2016 i salari in Ticino sono cresciuti meno che nel resto della Svizzera (1,13% all’anno contro 1,28% della Svizzera tedesca) e questo ha provocato un aumento in questi anni della disparità salariale tra il Ticino e il resto del Paese.
Quali sono le particolarità della situazione ticinese? Il rapporto ne parla, ma questi dati non vengono considerati nelle conclusioni. La prima è la vicinanza alla frontiera che condivide però con altre regioni. Il rapporto sottolinea che, come è prevedibile, il numero di immigrati in Svizzera provenienti da un paese europeo è in relazione con il tasso di disoccupazione di quel paese. Negli ultimi anni per esempio, essendo sceso il tasso di disoccupazione del Portogallo, sono diminuiti gli immigrati provenienti da quel Paese. Questo non è accaduto in Italia, dove il tasso di disoccupazione è ancora, dato Istat, del 9.9%, con un picco del 30.5% che colpisce i giovani tra i 15 e i 24 anni. Il dato lombardo della fine dello scorso anno è invece del 6.1%, pari a 300’700 disoccupati. 
Inoltre il rapporto spiega, ed anche questo è ragionevole, che gli immigrati provenienti da paesi nei quali i livelli salariali sono alti, arrivati in Svizzera, ricevono salari più alti. Questo è il caso dei lavoratori provenienti dal nord Europa che percepiscono salari più elevati dei lavoratori svizzeri. Differente è la situazione dei lavoratori provenienti dal sud Europa, per esempio dall’Italia. In questo quadro, i lavoratori frontalieri italiani sono i più penalizzati, perché, come detto, subiscono una discriminazione salariale dell’8%.
Nel suo rapporto inoltre la Seco sostiene che non c’è nessun dato che provi che in qualche modo l’immigrazione dall’Ue abbia escluso gli indigeni dal mercato del lavoro. L’OCST dal 2011 denuncia che, dalla riforma della LADI entrata in vigore quell’anno, si è ampliato il divario tra il dato sulla disoccupazione emanato dalla Seco, che corrisponde al numero di persone senza lavoro inscritte agli Urc, e quello calcolato ai sensi dell’ILO, che stima il numero di persone che vorrebbero trovare un lavoro. Il dato svizzero della disoccupazione Seco è davvero molto contenuto, e pari al 2,4%, quello nazionale della disoccupazione ai sensi dell’ILO raggiunge il 4,7%. A livello ticinese il dato Seco è pari al 2,5%, mentre il dato ILO segnala un 7,7%, molto diverso dal dato nazionale. A questo dato si affianca un aumento costante delle persone che vivono a beneficio del sostegno sociale. Siamo davvero certi, che nel nostro cantone la popolazione residente non sia penalizzata nella ricerca di un’occupazione dall’offerta proveniente d’oltre confine, specialmente per quel che attiene ai livelli salariali?  
L’OCST lo ha sottolineato più volte: un lavoratore ticinese deve sostenere spese paragonabili ai residenti negli altri cantoni della Svizzera, però riceve un salario nettamente inferiore, al di sotto del quale tuttavia non è possibile andare. È necessario per questo sostenere i livelli salariali nel nostro cantone rompendo questo circolo vizioso che conduce le aziende a risparmiare in primo luogo sul costo del personale.  
Nel rapporto si legge inoltre che la Segreteria di Stato dell’economia è preoccupata del futuro. Nel momento in cui infatti la disoccupazione nei paesi dell’UE scenderà, si reputa sarà difficile riuscire a reperire personale formato da attrarre nel nostro Paese. Anche in questo caso la prospettiva ticinese è diversa: una riduzione della disoccupazione nella vicina Italia, contribuirebbe a ridurre la pressione sul nostro mercato del lavoro ed aumentare la forza contrattuale dei lavoratori provenienti dall’estero. 
Come abbiamo fatto in passato, auspichiamo che la Segreteria di Stato dell’economia consideri maggiormente le particolarità dei cantoni di frontiera, affinché le politiche portate avanti a livello nazionale non escludano le necessità che emergono fortemente a livello locale.
 
R. Ricciardi e B. Rigotti